Per il libro Piccola barca, grande montagna offriamo due punti di vista, due recensioni secondo diverse sensibilità, nella speranza che entrambe incoraggino la lettura del libro. Quest’ultimo è scaricabile dal sito di Santacittarama, a questo indirizzo.
Recensione di Samira Coccon
Il libro Piccola Barca, Grande Montagna è una raccolta di discorsi tenuti da Ajahn Amaro, bhikkhu di tradizione Theravāda e discepolo di Ajahn Chah, a complemento e delucidazione di insegnamenti offerti dal monaco tibetano Tsoknyi Rinpoche (maestro Dzogchen) a praticanti presso lo Spirit Rock Center in California.
La sfida non era semplice e il rischio era che gli studenti si sentissero perplessi o, peggio ancora, confusi di fronte a insegnamenti storicamente e tradizionalmente così lontani fra loro, ma Ajahn Amaro spazza via il problema con un semplice incoraggiamento: “… Per questo vi invito a riconoscere che qualunque tecnica, qualunque forma di espressione, non è altro che una convenzione che noi accettiamo di usare per raggiungere un unico obiettivo: trascendere la sofferenza ed essere liberati. Ecco cosa ci indica qualunque tecnica”.
L’invito è quello di andare a vedere se stiamo producendo sofferenza (dukkha) per mezzo dell’attaccamento, e se con un’attenta analisi ravvicinata è possibile sciogliere quest’ultimo. Stabilita questa priorità, è importante non lasciarsi distrarre dalle differenze concettuali e lessicali che sussistono tra il Theravāda e lo Dzogchen.
Chi ha avuto la fortuna di ascoltare Ajahn Amaro ha sicuramente apprezzato la sua capacità non comune di spiegare concetti difficili e complessi in termini semplici e chiari, spesso aiutato dalla sua inesauribile vena comica (in alcuni casi canta, o fa imitazioni esilaranti) che usa con saggezza, così come Ajahn Chah era solito sfidare con domande impossibili le strutture mentali e i preconcetti che velano la vera natura delle cose.
Le convenzioni di tempo e spazio, il senso dell’io indipendente e del divenire vengono affrontati con mano sicura, analizzati, studiati; Ajahn Amaro è prodigo di esempi, di analogie e di citazioni e, alla fine, ci sentiamo condotti quasi con affetto verso l’applicazione degli insegnamenti. Un illuminante esempio a riguardo è questa nota sulle dinamiche dell’attaccamento:
Il semplice atto di comprendere questa esperienza illumina con la luce della saggezza ciò cui si sta aggrappando il cuore. Una volta che le contaminazioni si trovano sotto i riflettori, si sentono un po’ nervose e a disagio. L’aggrapparsi opera meglio quando non guardiamo. Quando l’aggrapparsi è messo a fuoco dalla consapevolezza, non riesce a funzionare come si deve. In sostanza, l’aggrapparsi non si può aggrappare se c’è troppa saggezza in giro. Quando la mente è calma e stabile, mi piace chiedermi “chi sta osservando?” o “chi è consapevole?” o “chi è che conosce questo?”. Mi piace anche chiedermi “cos’è che conosce?”, “cos’è consapevole?”, “cos’è che pratica la non-meditazione?”. Quando ci rivolgiamo domande di questo tipo il punto non è trovare una risposta; di fatto, se ci diamo una risposta verbale questa è sbagliata. Lo scopo di chiedersi ‘chi’ o ‘cosa’ è smontare ciò che diamo per scontato. Nella spaziosità della mente, le parole ‘chi’ e ‘cosa’ cominciano a suonare ridicole. Non c’è un vero ‘chi’ o ‘cosa’. C’è solo la qualità del conoscere. Via via che continuiamo a lavorare in questo modo in maniera sempre più affinata, vediamo che quel senso dell’essere persona diventa sempre più trasparente; perde la sua solidità e il cuore è in grado di aprirsi e stabilizzarsi sempre di più. Sia la pratica della vipassanā sia quella dello Dzogchen cercano di indicarci con molta chiarezza che noi rendiamo solido ciò che è intrinsecamente non solido. Questi metodi cercano di illuminare i modi sempre più sottili con cui ci aggrappiamo a ciò che creiamo attorno alle sensazioni di io, tempo, identità e luogo.
Nei frequenti riferimenti agli insegnamenti di Ajahn Sumedho, Ajahn Amaro lascia trasparire un profondo rispetto e insieme un’affettuosa familiarità. Ed è interessante osservare in entrambi, monaci da molti anni, una rara sensibilità alle difficoltà dei praticanti laici e una saggia sollecitudine nell’assisterli nel loro percorso meditativo.
Un’altra caratteristica dell’insegnamento di Ajahn Amaro consiste nell’enfasi sulla pratica dei brahma-vihāra e soprattutto della gentilezza amorevole (mettā), uno strumento che abbiamo sempre a disposizione:
Quando pratichiamo la gentilezza amorevole, il nostro cuore automaticamente si accorda con la realtà e ci sentiamo bene. E quando il nostro cuore è risvegliato alla realtà, funziona automaticamente con la gentilezza amorevole o con un altro dei brahma-vihāra. È come il traffico nelle due direzioni su un’autostrada fra il condizionato e l’incondizionato.
Ci sono le qualità intrinseche che emergono introdotte dalle pratiche. Intoniamo le corde in modo da allineare i nostri comportamenti e gli atteggiamenti ‘esteriori’ con ciò che è già ‘interiormente’. La bontà suona bene perché l’atteggiamento risuona con la realtà. Mentire e nuocere suonano male perché stonano con la realtà di ciò che siamo. È tutto qui. Il Buddha disse che i brahma-vihāra non sono qualità trascendenti; sono una dimora calma e meravigliosa. Facendo queste pratiche creiamo un allineamento in cui le cose coincidono. Le condizioni sono poste in modo che lo spazio è visibile e molto vicino. Quindi, non appena lo spazio si espande, bum! È proprio lì, allineato, e in quel momento il cuore è libero.
Gli insegnamenti di Ajahn Amaro, in armonia con la tradizione buddhista, tendono alla comprensione della realtà ultima e al contempo si radicano nel convenzionale dove questa può, in virtù della consapevolezza, svelarsi. Argomenti filosofici di non facile comprensione, come la sottile sequenza dell’origine dipendente, divengono in questo libro elementi visibili e sperimentabili, scevri da roboanti intellettualismi. E questa appassionante esplorazione degli insegnamenti del Buddha trova coronamento in una visione etica limpida e spoglia da ogni compromesso, quasi a offrire la forza stessa dell’abito monastico e della tradizione di cui esso è pregno a garanzia delle proprie parole.
Recensione di Ettore Fili
Il libro di AJAHAN AMARO, Piccola Barca, Grande Montagna. Riflessioni Theravàda sulla Grande Perfezione Naturale, Amaravati Publications, 2011, si offre al lettore ed al praticante come un mirabile ed agile compendio didascalico alla via del Buddha, consentendo un fattibile accesso alla secolare tradizione Theravàda thailandese dei Monaci della Foresta: con particolare riferimento agli insegnamenti del compianto Ven. Ajahan Chah e del suo continuatore Ajahan Sumedo.
La pratica principale alla quale Amaro ci invita è quella che – in definitiva – ruota attorno ai fondamenti stessi dell’ammaestramento del Buddha per il superamento, la nullificazione, di Dukkha attraverso la conoscenza e l’accettazione delle Quattro Nobili Verità e con la pratica della Cessazione (Dukkha Niroda). Ossia accettando che la sofferenza “c’è”, la sua origine, la possibile interruzione aperta ad ogni essere senziente e il cammino di “consapevolezza” che vi conduce; ciò anche tramite l’accoglimento riflessivo ed equanime della “Originazione interdipendente o Coproduzione condizionata” (Paticcasamuppada) posta alla base di tutta la realtà fenomenica, o convenzionale, e dei modi con cui la mente umana – erroneamente – la percepisce (o la rifiuta) e la vive.
Infatti, insiste Amaro, i modi abituali con cui la mente/coscienza percepisce la realtà convenzionale (come dotata di sé permanenti ed autonomi), “credendogli”, va a discapito del coglimento della realtà ultima, incondizionata e non duale, ove non si divide il nostro sé in due: il percettore/conoscente avverso o favorevole al percepito/conosciuto. Partendo da tale constatazione, Ajahan Amaro cerca di condurre il praticante ad una “visione profonda” (Vipassanà) capace di cogliere l’impermanente nel permanente, lo spiacevole nel piacevole o viceversa, insomma a svelarsi “gli opposti” che costellano i nostri giudizi “a priori”, riconoscendoli infine come semplici architetture mentali. E lasciarli andare. Insomma, smettere di distinguere le onde dall’oceano: sono la stessa cosa. Partendo dall’obiettivo di pervenire a tale copernicana “consapevolezza”, quindi, Amaro indica come addestrare la nostra mente “inconsapevole” – con l’utilizzo altresì pragmatico e perfino “riflessivo” della “meditazione” – per condurla al di là di tutte le numerose, mutevoli, interagenti e ingannevoli sfaccettare con cui essa ci mostra l’esistente o ci fa aderire alle sue composizioni virtuali.
Nel libro, a tal fine, vengono anche evidenziati i parallelismi possibili fra la tradizione buddhista Theravàda (o “Degli Antichi”), centrata sulla Scuola Thailandese “della Foresta”, ed i principi del Buddhismo Tibetano coi suoi influssi Mahàyàna (o “Grande Veicolo”), che parallelamente evidenziano come la vera essenza, e il fine, dell’uomo è la consapevolezza conseguibile come sostrato perenne del nostro esser-ci, più armonicamente, in questo mondo.
In tale contesto, il contributo ulteriore che Ajahan Amaro fornisce a chi vuole avviarsi alla pratica, o consolidarla (come dice lui, però, senza forzature ai risultati, ma in “rilassatezza” ed empatia coi viventi), è dato dal contributo di spunti e riflessioni volti a condurre il praticante alla “visione profonda” (Vipassanà) attraverso “l’attenzione” a corpo, sensazioni, stati mentali e loro contenuti, per giungere alla comprensione del non sé; vale a dire della “vacuità” (Sùnyatà), come “talità” o mancanza di individualità perenni – e autonome – inerenti alle cose percepite dai sensi che giungono alla Coscienza-Cìtta (che li “crede” veri) tramite la lente deformante dalle colorazioni egoiche e dualiste che la nostra mente (condizionata dalle abitudini e dal Sanskàra karmico) vi aggiunge.
La “vacuità” non è il nulla nichilistico, ma ci fa cogliere l’interdipendenza e impermanenza di cose, entità e degli stessi “pensieri”; per cui sarebbe bene esser consci che: “In questa vita quello che penso adesso è la condizione dell’istante di pensiero immediatamente futuro” (dal Paramatthajotikà, “La chiarificatrice del senso supremo”, in La Rivelazione del Buddha-Testi Antichi, vol. I, pag. XXVII e in W. Rahula, L’insegnamento del Buddha, Roma, 1994, pag. 38). [1]
Guadagnata tale consapevolezza, Amaro la convoglia ad insegnarci, quindi, come “non dimorare” in tali stati insoddisfacenti, tensivi per la coscienza, e pervenire alla “libertà” interiore. Questa, ricordiamolo, deve fondarsi, anche, sulla consapevole accettazione dei Tre Sigilli dell’Esistenza fenomenica; vale a dire che tutto, ma tutto, è interdipendente da altro per esistere; tutto, ma tutto, è necessariamente mutevole, impermanente e soggetto a finire o trasformarsi in altro; tutto, conseguentemente, è Dukkha o “insoddisfazione esistenziale” (termine che potrebbe definire la sofferenza nel suo significato psicofisico più ampio).
Al fine di cogliere tutto ciò, Amaro si è avvalso anche degli esiti, positivi, del possibile dialogo tra le radici Theravàda del Vipassanà (“Visione profonda”) e gli insegnamenti dei maestri Dzogchen di scuola Tibetana con influssi Mahàyàna, maturati durante un incontro dialettico con Tsoknyi Rinpoche presso lo Spirit Rock Meditation Center nell’autunno del 1997. Dzogchen, rammentiamolo, è una corrente spirituale tibetana della Scuola Nyinmapa i cui precetti risalirebbero al mitico Padmasambhava (il Guru Rinpoche), che giunse in Tibet dal Nepal verso il 774 d.C. In sintesi, detta Scuola, sta ad indicare il “come” dimorare in uno stato di saggezza naturale dell’individuo, da ri-scoprire poiché da sempre nel fondo della nostra natura primordiale o ultima: “la natura di Buddha” (il Tathàgatagarbha), realizzabile una volta liberatisi dei veli dell’ignoranza (Avidyà) e del Karma (o “frutto” – interdipendente pure esso…- delle azioni, parole, pensieri intenzionali del passato).
La sintesi di una tale summa, di Vipassanà e Dzogchen, lo si ritrova compendiato nei discorsi serali di Amaro riepilogati nel libro, nei quali l’attenzione dell’uditorio (ed ora anche del lettore) è continuamente richiamata – spesso con esempi, significativi aneddoti – ad applicarsi con retto sforzo e retta visione sugli aspetti pragmatici e praticabili del Dhamma. Ossia della Legge, intesa come vera e propria manifestazione del “Buddha”, in potenza in ognuno di noi: e tutto ciò con ripetuti riferimenti sapienziali tratti da invitanti aneddoti e dai Discorsi del Buddha nel Canone Pàli, sapientemente collegati agli aspetti tecnici, riflessivi e conoscitivi della Meditazione.
Chiudiamo questa presentazione con un sùtra, che riteniamo di base a qualsiasi praticante che voglia esercitarsi, riflettere e meditare in maniera proficua e non in maniera compulsiva, come sovente sottolinea Amaro; quindi con un atteggiamento rilassato, senza obiettivi da raggiungere, ma soffusi di un velo di empatica compassione capace di farci “accogliere – come paesaggio della vita – tutto lo spettro di ciò che è apparentemente sgradevole, repellente e decisamente spregevole”, per dare calma alla psiche (illuminante il paragrafo Saggia gentilezza: amare non è piacere, di pag. 34).
Traiamo allora l’annunciato sùtra dal Capitolo I, nel quale Ajahan Amaro – dopo aver evidenziato come per uscire dalla “realtà relativa” o fenomenica per volgersi alla “realtà ultima” in risiede il proprio vero “sé” (poiché “l’unico posto in cui è possibile trovare la libertà: è il mondo interiore”) – al paragrafo intitolato Il Luogo del Non Dimorare (nel mondo della mente condizionata), espone il bel discorso tratto dall’Udana 1.10 in cui il Buddha rivela al discepolo Bàhyia, che gli chiedeva una pratica di agile accesso all’illuminazione, di “esercitarsi” così:
“… quando, Bàhiya, in ciò che hai visto vi sarà solo ciò che hai visto, in ciò che hai udito vi sarà solo ciò che hai udito, in ciò che è percepito vi sarà solo ciò che hai percepito [dagli altri sensi e dalla mente] e in ciò che hai conosciuto vi sarà solo ciò che hai conosciuto, allora, Bàhiya, tu non ti identificherai più con quello [che hai visto, udito, percepito, conosciuto]. E quando, Bàhiya, non ti identificherai più con quello, allora, Bàhiya,tu non sarai più in quello [che hai visto, udito, percepito, conosciuto]. Quando, Bàhiya, non sarai più in quello, allora, Bàhiya, tu non sarai né qui né al di là, né in ambedue i luoghi. Proprio in ciò è la fine della sofferenza”.
Insomma, la pratica (anche fra le mura domestiche, per chi è laico), deve tendere a farci “dimorare” con la mente e col cuore nel presente, senza inseguire passato o futuro. Ossia, come Amaro sottolinea a pag. 38, con l’ausilio della padronanza delle basi del Dharma: “dimorare osservando attentamente in che modo gli oggetti dell’esperienza vanno, vengono e mutano. Inoltre, incontriamo ciascun oggetto riconoscendone la natura impermanente e insoddisfacente. Pertanto, la finalità principale della pratica è l’attenzione precisa sull’oggetto, il mondo oggettivo”.
In conclusione, l’affascinante viaggio che ci propone Ajahan Amaro, consiste nel realizzare Rigpa (la consapevolezza non duale, non giudicante, la qualità della mente che conosce pur non dimorando da nessuna parte) mediante una meditazione per certi versi nel contempo riflessiva e distaccata, che affinandosi con l’attenzione ad oggetti mentali o concreti, alle sensazioni collegate ad essi, induca man mano il praticante a spostare l’attenzione dall’oggetto (qualunque sia) alla natura del soggetto (la mente) che viene sedotto dalle “sue” stesse attrazioni o repulsioni; per accorgersi – risalendo al “perché” ed al “come” avviene tale seduzione – che la mente, in sé, è “vuota, lucida, sveglia e luminosa”. Siamo noi, soggetti, a crearle inconsapevolmente, abitudinariamente, “un mondo” virtuale a cui aderire. In definitiva, ci illumina Amaro, si può allora cogliere, anche razionalmente, come “sia il nostro stesso corpo [contrariamente a quanto “crediamo”] ad essere nella mente” e non il contrario. Se all’inizio tale asserzione può apparire quasi una bestemmia, subito Amaro ce la fa sparire. E ci chiede di rispondersi: “Dove ha luogo il vedere? Nella mente. Dove sperimentiamo il tatto? Nella mente. Dove sperimentiamo gli odori? Nella mente”, e così via. Ci si pensi: “Tutta la nostra vita, fin dall’infanzia, tutto ciò che abbiamo mai saputo del nostro corpo e del mondo è successo nella nostra mente”, inconsapevole. [2]
[1] Questa efficace esemplificazione sull’interdipendenza continua della nostra mente pensante e dell’incidenza che ha nelle nostre azioni, parole e pensieri ulteriori rispecchia i primi due magistrali versetti del Dhammapada: “ Preceduti dalla mente (Mano) sono i nostri stati mentali, la mente è il loro fondamento, essi sono essenziali di mente. Se con mente inquinata [da avversione, desiderio, ignoranza] una persona parla o agisce, la sofferenza la segue come la ruota del carro segue l’orma di chi lo traina. … Se con mente tranquilla [privata di avversioni, desideri, ignoranza] una persona parla o agisce, la felicità la segue come un’ombra che mai si diparte”.
[2] Qui possiamo finalmente cogliere a far nostro, capovolgendone le conclusioni a favore di chi pratica, questo folgorante sùtra: “La coscienza è insieme lo spettatore, il teatro e la danzatrice”, tratto dal Lankàvatarasutra o “Sùtra della discesa a Lanka” di Scuola Cittamatra (o del “Solo mente”) del IV secolo. Sùtra nel quale poi si fornisce, tra l’altro, una esaustiva spiegazione della “Coscienza deposito” inconscia (o Àlaya-vinnàna) che, coi “semi” karmici delle azioni, parole e pensieri passati (ivi permanentemente depositati), deforma e colora ogni percezione sensoriale o in memoria prima che giunga alla coscienza; per cui, “l’uomo incolto” l’accoglie e agisce di conseguenza, credendola propria o “vera” (in Philippe Cornu, Dizonario del Buddhismo, Mondadori, 2003, pp. 132, 321 e 322, a cui si rinvia per approfondimenti e comparazioni col Theravàda). Il Lankàvatarasutra è considerato un fondamentale compendio della logica, dell’ontologia e della “psicologia” buddhista, sia nel Buddhismo Tibetano sia nella tradizione Chan e Zen.